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Nessun singolo nutriente o integratore e' efficace contro il coronavirus

"Nelle ultime settimane e' stata piu' volte sottolineata una possibile correlazione tra la molecola lattoferrina e la prevenzione del Covid-19. Non c'e' nessuna evidenza", come non ci sono prove che "integrazioni alimentari - la vitamina C e D - curino specificamente il Covid-19". 

Lo ribadisce Marco Silano, direttore dell'Unita' Operativa Alimentazione, Nutrizione, Salute dell'Istituto Superiore di Sanita' (Iss), anche consigliere della Societa' italiana di nutrizione pediatrica (Sinupe), durante il suo intervento all'ultimo Congresso straordinario Sip. Silano aggiunge: "Allo stesso modo anche nelle diete, non c'e' alcuna evidenza che supporti l'uso preventivo o terapeutico di un singolo nutriente o di un integratore" nei confronti del virus. E lo stesso vale per i rimedi a base "di erbe della medicina tradizionale cinese, come della nostra tradizione, disponibili sul mercato: non si rileva nessuna correlazione tra l'assunzione e un effetto protettivo o curante del Covid-19". 

Cio' che e' veramente importante, infatti, a detta dell'esperto "e' affrontare il contagio in uno stato nutrizionale adeguato: ne' sottopeso ne' sovrappeso. L'obesita', difatti- continua- attraverso meccanismi ancora non del tutto noti, rappresenta un fattore di rischio per un decorso sfavorevole del Covid". Per questo motivo, l'Istituto Superiore di Sanita', come la Sinupe d'altro canto, hanno lavorato approfonditamente sulla celiachia nei mesi dell'emergenza. Anzitutto per rispondere in primis, ricorda Silano, "alla domanda se la celiachia fosse o meno una malattia autoimmune" perche' e' noto, ormai, "che queste malattie rappresentino un fattore di rischio per lo sviluppo di una forma piu' aggressiva di Covid-19. Sicuramente- continua il medico- la celiachia e' una malattia autoimmune", ma si tratta di un modello "unico di autoimmunita' per diversi motivi". 

In particolar modo, il direttore sottolinea come la celiachia sia "la sola e unica malattia autoimmune il cui trigger non e' endogeno all'organismo, ma e' un trigger ambientale noto, la cui esposizione- sottolinea- attiva l'infiammazione, e la cui sospensione con una certa lentezza, ma comunque con una certa sicurezza, riduce fino alla scomparsa l'infiammazione". Dunque con la celiachia aumenta il rischio infettivo, in generale? La letteratura, su questo, al contrario di quello che si potrebbe pensare considera ad esempio "il rischio di polmonite infettiva da pneumococco per un celiaco, sovrapponibile a quello della popolazione generale se si soddisfano due condizioni principali". Da un lato, "un rigoroso trattamento dietetico, una dieta senza glutine- illustra- iniziata prima dell'evento infettivo e portata avanti in maniera stretta". Dall'altro, si deve trattare di "una celiachia che non abbia sviluppato complicanze- aggiunge- quali l'iposplenismo o la celiachia refrattaria che fortunatamente si sviluppa nell'1% dei soggetti". 

Sul fronte dell'infezione da Sars-CoV2, poi, Silano ribadisce i dati gia' evidenziati a maggio dall'Iss: "Non c'e' nessun lavoro in letteratura che attualmente li colleghi". Anzi, in considerazione delle "evidenze indirette disponibili, e' plausibile affermare che le persone con celiachia non complicata, in trattamento dietetico, e senza segni clinici, sierologici, immunologici e istologici di attivazione di malattia, non presentino un maggior rischio rispetto alla popolazione generale, ne' di contrarre il Covid-19- conclude- ne' di avere un decorso piu' sfavorevole una volta contratto".

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